La moda etica celebra la vita: chi fa i nostri vestiti?

Un viaggio e un’analisi: è il reportage che Marilù Ardillo della Fondazione Casillo ha dedicato al nuovo modo di fare moda nel mondo.  

Evangelina Arivilica ha imparato a lavorare a maglia quando aveva 7 anni. Ha iniziato usando canne essiccate perché non aveva ferri da calza. Oggi è una magliaia a mano altamente qualificata, gestisce un laboratorio di maglieria artigianale che riunisce una comunità di donne a Nueva Aboarada, in Perù. Conduce anche corsi di formazione, distribuisce materiali e coordina la produzione di maglieria per INDIGENOUS, un'impresa di moda che da circa 20 anni mira ad essere riconosciuta come la più etica, trasparente e sostenibile al mondo. È stata fondata per imprimere una traccia moderna alle antiche tradizioni del design tessile peruviano e soprattutto per offire un'occasione che liberi dalla povertà le persone che vi abitano. Scegliendo abbigliamento naturale, biologico ed equo e solidale, tutti coloro che indossano i loro capi hanno un impatto positivo sul mondo. È così che nasce il vero cambiamento: inizia da un'idea.

Lo dice anche Rebecca Burgess, direttrice esecutiva di Fibershed e autrice del bestseller Harvesting color, in cui ha identificato 36 tipologie di piante da cui si possono ricavare coloranti naturali per tingere i tessuti. Fibershed produce fibre naturali rigenerate per produttori indipendenti, facendo affidamento su mulini alimentati da energia rinnovabile situati nelle immediate vicinanze in cui vengono coltivate le fibre. Grazie anche al pascolo strategico, alla coltivazione conservativa e una serie di pratiche legate alla riduzione del carbonio nel suolo, le loro catene di approvvigionamento generano indumenti "climate beneficial" (benefici per il clima). Si può fare. Possiamo prenderci cura dei nostri vestiti perché diventino portatori di significato.

"Mangiamo e ci vestiamo ogni giorno per sopravvivere e prosperare e nello stesso modo in cui siamo diventati consapevoli del cibo e del suo impatto sulla salute e sul benessere, possiamo diventare consapevoli della sostanza e delle origini di ciò che indossiamo", suggerisce Jane Milburn nel suo libro Slow Clothing. E aggiunge: "Riscaldano e proteggono il nostro corpo e influenzano il modo in cui ci sentiamo e ci presentiamo al mondo". La moda coinvolge circa 75 milioni di lavoratori nel mondo: l'impatto dei processi tessili sull'ambiente è notevole, sebbene la situazione stia lentamente migliorando grazie all'adesione di numerose aziende alla Detox Campaign di Greenpeace, una campagna avviata nel 2011 con lo scopo di ridurre le sostanze chimiche dannose per l'ambiente.

Ciononostante, rimane una delle industrie più inquinanti al mondo. Due terzi degli indumenti che indossiamo sono realizzati con fibre sintetiche, come il poliestere derivante dal petrolio, note per diffondere particelle microplastiche nell'ecosistema ad ogni lavaggio. Secondo uno studio del London Sustainability Exchange, la produzione di abbigliamento mondiale sfiora i 100 miliardi di pezzi ogni anno. Le eccedenze si sommano al basso ciclo vitale degli abiti diventando una massa di rifiuti di proporzioni preoccupanti, tossica e spesso bruciata con effetti inimmaginabili per l'atmosfera. In più, di quei 75 milioni di persone molte compongono una filiera ad alta manualità, dove ancora il cotone si raccoglie a mano, si ricama, si cuce, si tinge e si stampa.

L'aspetto ambientale spesso si intreccia alle pessime condizioni di lavoro, perché a moltissimi operai non viene riconosciuto alcun diritto: gli orari di lavoro sono inaccettabili e i compensi si rivelano spesso indegni. Una moda sostenibile si fa carico di entrambi gli aspetti: l'ambiente e i diritti delle persone, partendo dall'idea, passando per la produzione e la distribuzione, fino alla vendita. Circa 3 anni fa Netflix ha lanciato il documentario The True Cost, diretto da Andrew Morgan, che esplora l'impatto della moda sull'uomo e sul pianeta in un viaggio lungo 13 Paesi.

Raccogliendo interviste con ambientalisti, lavoratori del settore tessile, proprietari di fabbriche, fondatori di società di commercio equo ed economisti, Morgan ha provato a dare il suo contributo con l'auspicio di “rendere le persone più consapevoli e scegliere le cose che sostengono la vita".

Chi ha fatto i miei vestiti? Questa è la domanda da cui sono partite Orsola de Castro e Carry Somers, due donne di grande intuito e sensibilità, che nel 2013, dopo il crollo del complesso produttivo a Rana Plaza in Bangldesh, hanno fondato a Londra l'Associazione Fashion Revolution, che attualmente opera in più di 100 Paesi nel mondo, lavorando anche a stretto contatto con le scuole, con i brand e con i produttori per creare consapevolezza e promuovere il valore della responsabilità sociale dei consumatori. Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia e co-autrice del libro La rivoluzione comincia dal tuo armadio, insieme a Luisa Ciuni, auspica che questo bellissimo progetto ci insegni che "scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo". Dal 19 al 25 Aprile 2021, l'Associazione sfida i consumatori a indossare un indumento al contrario, scattare una foto e postarla sui social chiedendo ai brand “Chi ha fatto i miei vestiti?”, con l'hashtag #WhoMadeMyClothes.

È un modo per provare a mobilitare le persone da ogni parte del mondo, perché un ripensamento delle nostre abitudini d'acquisto si fa ogni giorno più urgente. Un capo dovrebbe essere indossato per sempre, perché racconta una storia. "Dobbiamo essere pronti ad ascoltarla, ad affezionarci a quella storia e a quella delle persone che lo hanno realizzato. Questa è la prima forma di sostenibilità: legarsi ad un capo e fare di tutto, riparare, ricucire, rigenerare, prima di buttarlo via". Per offrirgli l'opportunità di essere amato di nuovo, perché quando possiamo lasciare il nostro segno sulle cose siamo più liberi. Questa nuova concezione ha ispirato tra i tanti Niccolò Cipriani, fondatore di Rifò, un progetto sociale più che un brand, che muovendo i primi passi da un'antica tradizione tessile toscana, ha creato una linea di abbigliamento di qualità con fibre 100% rigenerate e rigenerabili. Appena due anni fa Rifò ha lanciato il primo maglione rigenerato dal jeans, 100% italiano, confezionato e spedito in packaging di cartone e materiali plastic free, 100% riciclabili e realizzati in Italia. Oggi sceglie la modalità della Prevendita, per comprendere meglio le esigenze dei consumatori ed evitare di produrre più di quanto è necessario.

Il giovane team collabora anche con associazioni di volontariato locali, finanzia progetti concreti come "Un rifugio per l'ambiente" in collaborazione con Legambiente Prato, finalizzato a valorizzare il rifugio Cascina le Cave di Cantagallo, nell’appennino Tosco-emiliano, per rendere il rifugio più sostenibile e indipendente da un punto di vista energetico, attraverso l’installazione di un sistema fotovoltaico. Sempre dalla Toscana arriva un altro esempio virtuoso, dal Consorzio Vera Pelle Italiana conciata al vegetale, che sceglie un tipo di pellame ottenuto da materiali di scarto della produzione alimentare che durante la lavorazione acquisisce proprietà uniche grazie all'azione dei tannini, sostanze naturali estratte da fonti vegetali. Senza ricorrere all'utilizzo del cromo, o di acidi come sodio e ammonio, che fluiscono poi nell'acqua e nella falda libera. L'Italia oggi sembra essere all'avanguardia nel mondo della moda etica: nel 2016 è stato istituito il CID (Consorzio italiano Detox) che facendosi portavoce della sfida lanciata da Greenpeace, ha provato a dimostrare che è possibile generare una moda ecocostenibile, a cominciare da un uso corretto dei coloranti. Valentino è stato uno dei pimi brand di lusso ad aderire al protocollo Detox; Ferragamo privilegia da sempre materiali sostenibili, promuovendo calzature realizzate con materiali italiani e rinnovabili quali il sughero, la pelle di pesce e la raffia.

"Non possiamo dimenticare però", ci rammenta Luisa Ciuni nel suo libro, "che un'enorme massa di produzione tessile avviene fuori dai confini del nostro Paese in luoghi remoti, vanificando le certificazioni, gli accordi etici sottoscritti dalle aziende e il lavoro di valore". Probabilmente la maggior parte dei marchi italiani ha sottoscritto il Manifesto della sostenibilità per la moda italiana, varato dalla Camera della Moda nel 2012, ma non basta. Perché appena varcato il confine il problema si ripresenta. Allora forse possiamo aggrapparci all'arte, alla poesia, all'ispirazione. Possiamo seguire le orme di Swati Soharia, una giovane designer che riutilizza scampoli di industrie tessili per creare nuove stole tipiche della tradizione indiana. E per farlo guida un gruppo di 50 donne provenienti da comunità emarginate che trasformano rifiuti tessili in capi colorati che tracciano anche il racconto della loro vita.

A casa nostra Quid Impresa Sociale fa qualcosa di simile: offre un'opportunità di lavoro a donne vulnerabili che hanno combattuto e superato situazioni difficili. E per farlo le coinvolge nella produzione di capi di moda etica con l'etichetta "Progetto Quid", una partecipazione attiva alla bellezza e alla creatività. Lo hanno chiamato Quid perché offre quel qualcosa in più alla comunità, ai clienti e ai marchi partner, e tiene uniti come la molletta del loro logo i valori di mercato con i valori sociali. Oppure possiamo fare appello all'incanto, davanti alle splendide opere di Vanessa Barragão, designer tessile di origini portoghesi che crea arazzi con scarti tessili recuperati. Nel suo studio di design, situato a Olhos de Agua, un delizioso villaggio di pescatori portoghese nel cuore dell'Algarve centrale, la giovane Vanessa lavora con tecniche artgianali ecologiche sui filati di scarto dell'industria tessile per creare opere d'arte ispirate all'oceano e alle barriere coralline, la cui salvaguardia le sta particolarmente a cuore.

Il suo è un lavoro di impatto, che mira a sensibilizzare, informare, ma anche meravigliare. Riportandoci alla bellezza che saremmo costretti a perdere, ci responsabilizza sulla salute della nostra Terra. E la sua arte si fa portatrice di un messaggio. Dunque "l'ecosostenibilità è la capacità di percepire la sacralità della vita", prendendo in prestito le parole di Tiziano Guardini. Giovane fashion designer romano, ha ideato ECOuture, un modo evolutivo di ridisegnare la moda, dosando sapientemente sartorialità, innovazione, rispetto e sperimentazione. La natura è il suo punto di partenza e di arrivo: nel 2012 ha partecipato all’edizione limited/unlimited proponendo la giacca “aghi di pino”. I suoi sono abiti carichi di suggestione, realizzati con materiali speciali fortemente sostenibili e cruelty free, con lavorazioni, forme e contenuti dove etica ed estetica si fondono in un binomio imprescindibile.

La moda dà alle persone una voce, la possibilità di parlare apertamente senza paura. La moda rispetta cultura e tradizione. Incoraggia, celebra e ricompensa il talento. La moda unisce, indipendentemente da genere, classe sociale, identità o abilità. La moda protegge e conserva. La moda vive per esprimere, riflettere, confortare e condividere. La moda celebra la vita. Il Manifesto di Fashion Revolution riassume tutto ciò che la moda può e deve essere. La parte restante di questo battito sta a noi sollecitarla.

*Articolo di Marilù Ardillo